Salzburg, Felsenreitschule, “Macbeth” di Giuseppe Verdi
FELSEN UND STEIN, ROCCE E PIETRA
Ci si consenta il gioco di parole del titolo, partendo da “felsen” del teatro (rocce) ed arrivando al regista Peter Stein (Pietro Pietra) che in quel luogo ha creato spettacoli intelligenti e prodighi di emozioni. Come questo, un Macbeth diretto da Riccardo Muti che è stato uno degli eventi più attesi del Festival, largamente pubblicizzato ed esaurito da mesi, in quanto prima collaborazione fra due veterani della scena contemporanea che con Salisburgo hanno un rapporto lungo e privilegiato. Riccardo Muti festeggia quarant’anni di presenza e Peter Stein proprio nella Felsenreitschule ha firmato alcuni dei suoi più importanti successi.
Il regista tedesco, fedele al motto di “mettere in scena dei fatti e non delle interpretazioni” , offre una lettura classica e didascalica del capolavoro verdiano, anche se la ricerca di una oggettività assoluta finisce con il compromettere dramma e analisi psicologica di un’opera particolarmente visionaria e complessa.
Stein rispetta l’ambientazione in Scozia alla fine del Medioevo, come ben suggeriscono i raffinati e curatissimi costumi tardo-medievali di Annamaria Heinreich, fra scabri rilievi ondulati creati da Ferdinand Wögerbauer per la Felsenreitschule, i cui tre ordini di gallerie scavate nella roccia rimangono una presenza forte e imprescindibile.
In una scena fissa e senza quinte si sfruttano pochi elementi che appaiono e scompaiono dal palcoscenico: una parete nera con una porta abbozza il castello e mette in rilievo l’entrata della Lady e il progressivo scivolare nel delitto; una tavola luminosa che attraversa tutto il palcoscenico è la lunga passerella su cui la Lady intona il brindisi e davanti a cui appare come dal nulla Banco insanguinato, gli otto Re sembrano sorgere da una ruota che gira dentro una botola, il pentolone sorge dal basso e consente le apparizioni.
Si sfrutta inoltre una sorta di corridoio ricavato fra la buca e le prime file di platea come spazio scenico ulteriore per fare sfilare le masse: il corteo di reali, invitati e musicisti prima del convito o la moltitudine lacera dei perseguitati che sfila con dolorosa lentezza in “Patria oppressa”.
Come nella tragedia di Shakespeare, le streghe sono solo tre: grottesche creature bianche sovradimensionate interpretate da tre attori incappucciati con inquietanti seni di plastica che si agitano attorno a un gigantesco calderone infernale, mentre i coristi rivestiti di foglie ed illuminati da un sapiente gioco di luci ricreano la magia di un bosco notturno e incantato. Lo spettacolo infatti deve molto alle luci di Joachim Barth che, oltre a favorire il movimento scenico, valorizzano al massimo il fondale roccioso della Felsenreitschule (ad esempio quando la Lady sonnambula percorre la lunga galleria scavata nella roccia con una candela e un fascio di luce accende la pietra di una luce calda per poi ritrarsi fino a spegnersi del tutto).
Il movimento scenico preciso e naturale è ciò che più si apprezza nello spettacolo di Stein: straordinario. Nella scena dell’uccisione di Banco i sicari immobili simulano tronchi di un bosco spettrale che si fa poi un bozzolo che “inghiotte” Banco portandolo via in dissolvenza con rapidità fulminea. Ottime anche le scene solitamente “critiche”: quelle di battaglia sono un esempio di perfetta sintonia con la situazione musicale e drammatica nella disposizione delle masse. Si apprezza, inoltre, la gestualità asciutta e tragica che traspare nella tensione delle mani o nella postura incurvata di un rapace o di una fiera pronta allo scatto che caratterizza Macbeth e la Lady. In opposizione alla coppia infernale, il tenero amore fra Macduff e la moglie offre un inedito cameo di amor cortese. Avremmo però fatto a meno di vedere i cadaveri insanguinati di moglie e figli in didascalia alla “Paterna mano”.
L’opera è stata qui proposta in una forma ibrida che adotta il finale della prima versione del 1847, drammaticamente più forte per la morte di Macbeth in scena, ma segue nel resto la seconda versione con l’integrale del ballo scritto per la versione parigina del 1865 in apertura del terzo atto. Scelta opinabile quest’ultima, in quanto il balletto degli spiriti, risolto senza danze ma con bambini vestiti di bianco che con movimenti armoniosi si allontanano e si ricongiungono prendendosi per mano mentre Macbeth riverso a terra sogna, è decisamente lungo e allenta la tensione.
Tatiana Serian si è rivelata un’ottima Lady per intensità scenica e controllo vocale; la voce non spicca per bellezza timbrica, ma il canto è irreprensibile e le consente di dominare la tessitura impervia con acuti penetranti e un solido registro centrale; se la lettera non è pienamente risolta per limiti di dizione, convince pienamente nel brindisi e nella scena del sonnambulismo di forte impatto drammatico ed emotivo.
Zeliko Lucic è un Macbeth dalla voce salda e sonora, ampia e ben emessa, come si conviene a un baritono “verdiano”; il canto non ha esitazioni, ma manca ancora uno scavo sul personaggio e l’interprete è inferiore al cantante. Dmitry Belosselsky ha voce importante e il suo Banco suona potente. Di Giuseppe Filianoti (Macduff) si apprezza sempre la bellezza timbrica nel registro centrale, ma nell’acuto si percepisce lo sforzo. .
Interessante il Malcolm di Antonio Poli, voce da seguire. Anna Malavasi è una Dama sensibile; completano il cast Gianluca Buratto (il medico) ed Andrè Schuen (il servitore).
Un Riccardo Muti sorridente e in gran forma ha diretto con fedele rispetto della partitura e perfetto dominio di tempi e dinamiche una delle opere da lui più frequentate. Favorito dal suono rotondo dei Wiener, che si piega in modo duttile agli scarti più drammatici, Muti ha reso palpabile il vigore di un primo Verdi senza mai perdere in morbidezza e cantabilità. Un’esecuzione un po’ levigata per un’opera così drammatica e “imperfetta”, ma di assoluta bellezza, in particolare nelle ispirate pagine sinfoniche, nell’introspettivo coro “Patria oppressa” dalla tinta malinconica e ovattata, nella mirabile dolcezza d’accompagnamento a “Pietà,rispetto amore” in cui si ravvisa una straordinaria coesione voce-orchestra. Ottima la prova del Wiener Staatsopernchor.
Dieci minuti d’applausi e ovazioni per uno dei trionfi (all’insegna del classico) del Festival di quest’anno.
Ilaria Bellini con la collaborazione di Francesco Rapaccioni